Parole d’ordine: condivisione, conoscenza, trasversalità e irriverenza
di Anna Brambilla
“I miei parenti volevano a tutti i costi che diventassi musulmana, ma io ho un altro desiderio: voglio essere cristiana, mi piace cantare i gospel in chiesa. Loro lo volevano a tutti i costi, così sono scappata da casa senza salutare nessuno” (Lilian – Nigeria)
Non so se Lilian abbia realizzato il suo desiderio. La sua testimonianza mi arriva dalle pagine del libro “Erano come due notti” di Else edizioni. Raramente i sogni e i desideri trovano spazio nelle storie delle donne migranti che ascolto come avvocata. Domando, approfondisco, cerco di trovare soluzioni. Raccolgo dolori, qualche volta speranze, quasi sempre bisogni concreti: un permesso di soggiorno, un luogo dove stare, un lavoro per poter vivere. Solo nei luoghi di transito, dove è la volontà delle persone che si incontrano è quella di non fermarsi in Italia, il tempo e lo spazio della relazione ti consentono di chiedere altro: dove vuoi andare? Chi vuoi raggiungere? Cosa vuoi fare?
Se il rapporto con le istituzioni è caratterizzato da tensioni continue, alimentate non tanto e non solo da scontri diretti ma da mediazioni estenuanti, in cui razzismo, ignoranza, stanchezza, assenza di risorse si mescolano indissolubilmente, la relazione con le donne migranti rischia in molti casi di essere schiacciata dalle violenze e dalle disparità che le stesse sono costrette a subire. Ogni donna ha nella sua storia una parte di indicibile. Qualcuna lo rivela dagli occhi, da un leggero movimento del capo, qualcun’altra lo afferma verbalmente. Il viaggio, il mare, nessuna donna dovrebbe mai farlo.
Il rapporto tra l’avvocata e la parte assistita è carico di aspettative reciproche. Trovare un punto di equilibrio è fondamentale. Il confronto tra donne consente di stabilire maggiormente una relazione empatica. Non significa avere compassione o avere la presunzione di poter veramente mettersi nei panni dell’altra ma si hanno maggiori possibilità di trovare un appiglio, un dettaglio, un momento di confidenza intima che poi consente di svolgere il proprio lavoro. Step by step. Passo dopo passo.
In questo contesto, senza prescindere da ruoli, storie e percorsi, appare importante riorganizzare il pensiero e le modalità di azione seguendo alcune pratiche e “parole d’ordine” che appaiono essere più facilmente realizzabili partendo proprio dalla relazione tra donne. Condivisione, conoscenza, trasversalità e forse anche un po’ di irriverenza.
La condivisione crea capacità di comprensione. Condividere con le donne con cui ci si rapporta uno spazio accogliente, un “fare insieme” porta la relazione su un piano di parità che raramente si raggiunge solo attraverso il confronto verbale, soprattutto se questo confronto avviene su questioni legali. Cucinare insieme o anche solo condividere un pranzo può significare molto, consente di sospendere aspettative, giudizi e fatiche. Se il tempo non fosse sempre tanto tiranno sarebbe bello potrebbe tornare tra donne al momento del gioco. Sedersi per terra, disegnare, sovvertire le regole e tornare ad essere tutte un po’ bambine.
Conoscere il mondo dell’altra persona, se non con il viaggio almeno attraverso la letteratura, consente di evitare la continua negativizzazione dello stesso a cui siamo costretti per affermare il bisogno di protezione di migranti forzati, richiedenti protezione internazionale, donne e uomini vittime di tratta. Sopravvissute e sopravvissuti. La lettura un libro può offrire spunti di relazione inaspettati anche grazie di utilizzo di parole intraducibili che fanno da ponte tra una realtà. Un motorino può diventare un “okada”, la parola “gaboye” può aprire un mondo prima inaccessibile.
In questa situazione caratterizzata da un continuo deterioramento culturale e politico della società appare inoltre urgente rafforzare legami e riappropriarsi di uno sguardo trasversale capace di abbracciare non un’unica categoria di soggetti bensì i diritti e i bisogni propri di persone differenti. L’essere donne, l’essere madri. Avere bisogno e diritto ad un luogo in cui vivere, in cui poter esistere senza avere continuamente la necessità di fuggire o di proteggersi. Non più campi, luoghi in cui protezione e assistenza si sovrappongono pericolosamente ma luoghi in cui esistono regole da rispettare ma anche spazi di riconoscimento dell’altrui autonomia e delle capacità di ognuna.
La libertà è una lotta costante, è il titolo di un libro di Angela Davis. Un mantra da ripetere. Senza però prendersi troppo sul serio ne dare nulla per scontato. Per questo serve l’irriverenza, intesa anche come capacità di contrapporsi al potere, di sminuirne la forza repressiva attraverso un atto impertinente. Una risata vi seppellirà. Un altro mantra da ripetere. Un’immagine a cui aggrapparsi nei momenti di maggiore smarrimento.
Chiudo questa riflessione pensando che tra qualche settimana parteciperò alla mia prima “celebration”. Una piccola festa in cui T. e C., due donne nigeriane accolte in un progetto anti-tratta, festeggeranno il rilascio del permesso di soggiorno per asilo politico. Lo status di rifugiato. Il riconoscimento formale del loro essere state vittima di persecuzioni e violenze poste in essere in quanto donne provenienti da un determinato Paese. Dopo tanti incontri fatti di parole e di luoghi, non solo fisici, prevalentemente “nostri”, mi immergerò assieme ad altre colleghe in un momento “loro”. Sarà un bel momento per chiudere una parentesi e aprire la strada ad altro. Se poi il mondo che loro vorranno sarà diverso da quello che voglio io, se ci perderemo di vista o se incontreremo ancora come “avvocata” e “parte assistita” questo poco importa. Avremmo celebrato insieme un momento magico.
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Anna Brambilla è nata a Milano e, dopo una parentesi romana, ora vive in Toscana. Dal 2001 si occupa di immigrazione, attraverso attività di tutela legale, ricerca, formazione e monitoraggio. E’ socia dell’ASGI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. Quando può si occupa di piante, colori e attività laboratoriali per bambini e genitori.
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