Mondiali Femminili di Calcio 2019: come un evento di costume è diventato un fenomeno socioculturale e sportivo di primo piano
di Carmen Genovese
Con la gara inaugurale al Parco dei Principi di Parigi tra Francia e Corea del Sud, vinta dalle padrone di casa con un netto 4 a 0, ha preso il via il Campionato Mondiale femminile di calcio. Un Mondiale diverso dai precedenti, per forma e sostanza, anche grazie alla presenza di un’ottima copertura mediatica e sociale che l’ha reso finalmente fruibile al grande pubblico, avvicinandolo specialmente in Italia, anche ai più scettici.
La prima edizione ufficiale è datata 1991, in Cina, ma dobbiamo aspettare l’edizione Statunitense del 1999 per vedere un evento di portata internazionale e con un bacino d’utenza sia fisica che mediatica importante. In quell’occasione tutte le partite furono trasmesse in televisione garantendo nei soli stati americani circa 40 milioni di spettatori, gli stadi si riempirono e ancora oggi la finale tra Stati Uniti e Cina, vinta dalle americane solo dopo i calci di rigore, detiene il bel primato di oltre 90 mila spettatori presenti al Rose Bowl di Pasadena.
Il Mondiale è già in realtà alla sua ottava edizione ma, mai come in questa occasione, sta donando nuova linfa vitale a un movimento a cui troppo spesso non è stata data la possibilità di crescere. Il cambiamento verso un calcio più universale e universalmente condiviso non è avvenuto in modo repentino, tutt’altro. Anni di battaglie sociali e culturali hanno caratterizzato in tutto il mondo la crescita di un movimento che ha conquistato con sangue e sudore il diritto di essere annoverato, quanto meno nelle competizioni internazionali più importanti, alla stregua di quello maschile, passando negli anni da secondario fenomeno di costume contornato da sfottò e luoghi comuni, ad evento socio cultuale e sportivo di primo piano.
È solo da questo Mondiale che davvero si parla di rivoluzione sportiva, di conquiste, di diritti inseguiti per decenni e ancora non raggiunti. Diritti che nel 2019 sembrano banali, quasi scontati, sono stati negli anni il campo di battaglia di calciatrici o semplici appassionati che hanno investito, il più delle volte gratuitamente, tempo e denaro per vedere piccoli e lenti progressi in un mondo che, innegabile dirlo, è maschilista e misogino. È bello vedere ora come l’Italia si sia svegliata progressista in campo sportivo. Per far sì che queste piccole conquiste portino a qualcosa di concreto bisognerà tenere alta l’attenzione: perché se la visibilità mediatica è la cosa più evidente che questo Mondiale ci sta restituendo, le problematiche sono e devono essere altre.
Pensiamo agli stipendi dei calciatori professionisti che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli delle colleghe. E poi gli stadi, le infrastrutture, la copertura mediatica, sono tante le cose da dover e poter migliorare. In Italia una tappa fondamentale è stata raggiunta con il passaggio nel 2018 della divisione femminile sotto la giurisdizione della FIGC. Questa ha sancito l’obbligatorietà per le squadre professionistiche maschili di serie A e B di avere anche una squadra femminile. Ciò ha portato quindi numerose società importanti, che prima non avevano mai investito in questo settore, a dotarsi di un’omonima squadra femminile; basti pensare alla Juventus e al Milan solo per citarne alcune.
Ma la strada è ancora lunga, i pregiudizi tanti e i paragoni inappropriati non cessano di esistere nemmeno in questo Mondiale, dove la presenza massiccia dei social continua a mostrare fenomeni di discriminazione e ignoranza sportiva.
La domanda più frequente e meno offensiva è: possiamo paragonare il calcio femminile a quello maschile? La risposta è no. La nostra conformazione fisica è diversa, e questo basterebbe a spiegare perché fare un paragone sarebbe sciocco e riduttivo, ma grazie a questo Mondiale si potrebbe imparare a guardare questo sport in un modo diverso, a seguire le cose da un’altra prospettiva, ad ampliare i nostri orizzonti calcistici ma soprattutto potrebbe essere il trampolino di lancio per migliaia di bambine e ragazze a cui per troppo tempo sono state tappate le ali. Bambine e ragazze che amano questo sport e che ora possono sognare di indossare la maglia della loro squadra del cuore con incisi sulla schiena non per forza i nomi di Ronaldo, Icardi o Mertens ma magari delle varie Girelli, Sabatino, Bonansea.
È una speranza, è una rivoluzione che può e deve avvenire. Una rivoluzione fatta di sogni, perché lo sport è passione e le passioni non vivono di vittorie e sconfitte. Le passioni vivono solo di sogni.
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Carmen Genovese, 33 anni, grande appassionata di sport e di calcio, fino allo scorso anno giocatrice non professionista, come tutte le atlete d’Italia.
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