Le parole sono importanti, usiamo quelle giuste
di Giovanna Bruno
Con il termine ‘sessismo’ si definisce la tendenza a discriminare una persona a livello sociale, politico, culturale o professionale, in base al sesso di appartenenza. Il linguaggio rappresenta una delle varie modalità con cui il sessismo può essere espresso ed esercitato nella società e nelle interrelazioni quotidiane. Il linguaggio rappresenta lo strumento con cui diamo forma a pensieri, sentimenti, idee, creando lo spazio simbolico del nostro modo di concepire e descrivere la realtà che viviamo e il contesto culturale con cui quotidianamente ci confrontiamo. Il linguaggio ha, infatti, la potenzialità intrinseca di condizionare la nostra ‘mentalità’, a causa della relazione esistente tra parola e pensiero.
Il linguaggio ‘comune’ ricopre, dunque, un importante ruolo nei processi di costruzione sociale della realtà, e nel definire, rinforzare o, potenzialmente, scardinare i retaggi culturali, patriarcali e sessisti, che tuttora ostacolano il pieno riconoscimento e il concreto raggiungimento della parità di genere in Italia. Se usato in modo sessista, il linguaggio rinforza concezioni stereotipate relative all’identità di genere di donne e uomini, limitandone la libertà individuale e riducendone la possibilità di una soggettiva e particolare autoaffermazione, che non sia categorizzata in base al sesso. Il potere creativo, simbolico e rappresentativo del linguaggio non può, e non deve, essere sottovalutato.
Il linguaggio sessista include parole, espressioni, modi di dire, doppi sensi, proverbi, luoghi comuni, abitudini grammaticali che vanno a denigrare la persona in base alla sua identità di genere e sono al contempo conseguenza e concausa di una doppia morale, nonché di visioni stereotipate e discriminatorie. Ad esempio, l’insulto ‘puttana’, rivolto alle donne anche in contesti non legati al sesso, mostra una finalità denigratoria della sessualità femminile, concepita come priva di desiderio e finalizzata alla riproduzione e alla mera soddisfazione dei bisogni maschili (in una visione prettamente etero-normativa). Allo stesso modo, insultare un uomo definendolo ‘una femminuccia’, qualora non rispetti gli standard di una mascolinità stereotipata, sottolinea chiaramente la concezione di subalternità del genere femminile rispetto a quello maschile.
Un’ulteriore modalità con cui il linguaggio rinforza strutture di disuguaglianza e disparità di potere tra i generi consiste nell’utilizzo di sostantivi maschili riferiti alle donne, per quelle lingue in cui esiste anche il genere grammaticale femminile, come l’italiano. Ciò accade, spesso, soprattutto laddove le donne accedono a professioni, cariche istituzionali e ruoli di maggiore prestigio. Professioni, cariche e ruoli a cui, storicamente, le donne non potevano accedere. Non c’è dunque da stupirsi che termini come sindaca, ministra, avvocata, ingegnera possano non suonare, nonostante siano assolutamente corretti dal punto di vista grammaticale, e importantissimi da utilizzare nel rispetto dell’identità di genere delle donne a cui si rivolgono. Chi si ostina a utilizzare i maschili nei confronti delle donne, giustificando tale scelta con la presunta ‘cacofonia’ dei corrispettivi femminili, non fa altro che riprodurre quelle discriminazioni sessiste che hanno per lungo tempo precluso alle donne la possibilità di perseguire determinate carriere e accedere a ruoli di potere. Termini come quelli citati non sono entrati nel linguaggio comune, semplicemente perché non erano necessari, in quanto alle donne non veniva riconosciuto il diritto di ambire a tali posizioni. C’è poi chi qualifica il maschile come ‘neutro’ e vi attribuisce una funzione ‘universale’, che possa valere anche per il genere femminile. Ma la presunta neutralità del maschile non rappresenta uno strumento di inclusione, bensì un privilegio degli uomini di poter dare per scontato il diritto a venire appellati secondo la loro identità di genere, nonché un ennesimo espediente per sminuire, mortificare o ignorare il valore sociale, professionale e politico delle donne, rendendole completamente invisibili.
Appare, inoltre, alquanto evidente che la questione non sia limitata esclusivamente al rispetto delle regole grammaticali della lingua italiana, le quali prevedono le suddette accordanze al femminile. Un fattore in particolare sembra essere centrale nel dibattito, in grado di rendere accettabili cuoca, sarta, maestra, parrucchiera, operaia, infermiera, segretaria, e di destare obiezioni all’utilizzo di certi altri femminili: il potere. Ciò che viene percepito come anomalo è il riconoscimento di una donna in una posizione al vertice, con un certo ruolo e un certo prestigio. Ostinarsi a non utilizzare il femminile per mestieri, occupazioni o cariche istituzionali certamente non aiuta a renderli più ‘orecchiabili’ né facilita il processo necessario a inserirli più facilmente nell’uso corrente della lingua comune, nonostante l’italiano lo permetta già.
Cruciale è la potenzialità intrinseca del linguaggio di adattarsi – e farci adattare – al progresso verso una società più inclusiva e giusta. Ignorarne, minimizzarne o banalizzarne il peso e la portata sociale, culturale, politica ed economica significa non riconoscere l’urgenza e la necessità di un cambiamento strutturale, che riguarda numerose sfere, tra cui – e in maniera imprescindibile – il linguaggio. Infatti, la battaglia per il riconoscimento paritario a livello linguistico è un tassello, fondamentale, di una battaglia più ampia, per la parità di genere in tutti gli ambiti. L’utilizzo del femminile è un importante strumento non solo per dare la giusta visibilità linguistica alle donne, ma anche per abituarsi all’idea che determinate professioni siano oggi, finalmente, accessibili a prescindere dal genere. Come spiega l’Accademia della Crusca, “un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del Paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo”. Le parole sono importanti. Quindi, dato che la grammatica italiana lo permette, usiamo quelle giuste. Con uno sguardo al futuro, i benefici dell’utilizzo del femminile per professioni storicamente riservate agli uomini andrebbero anche a incidere le aspirazioni delle bambine e delle ragazze. Il linguaggio ha un grande potere evocativo, che permette o limita l’immaginazione. Avere a disposizione le parole per ‘dire’ crea lo spazio simbolico per pensare, sognare e desiderare. Dovrebbe essere interesse di tutt* fornire alle bambine e ai bambini tutte le parole necessarie per immaginare di poter diventare tutto ciò che vogliono.
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