Un aborto farmacologico
Intervista a Clara Campi
di Giusy Coronato
Clara Campi è una giovane attrice diplomata presso l’American Musical and Dramatic Academy di New York, dopo cinque anni negli USA è tornata a Milano dove si dedica principalmente alla stund uo comedy. Qualche mese fa in un reading durante uno spettacolo, ha parlato della sua esperienza con la RU486 in un Ospedale di Milano.
Clara, quando hai iniziato ad avvicinarti alla causa dei diritti delle donne? Ti definisci femminista?
Decisamente lo sono ma non saprei individuare il momento preciso: sono figlia di una femminista che da piccola mi fece leggere “Dalla parte delle bambine” e ricordo di non averlo neanche capito fino in fondo, perchè avrò avuto 10 anni. In realtà mi sono scontrata con il maschilismo più tardi, l’ho trovato soprattutto nel mio ambiente lavorativo che, essendo quello della comicità, è totalmente dominato dagli uomini. Lì ho sbattuto contro certe cose che nel mio piccolo mondo bello erano cose superate, invece mi sono resa conto che non lo erano per niente.
Hai così iniziato a trattare temi sull’argomento anche nei tuoi spettacoli?
In scena cerco di puntare molto su quello, anche se io scrivo di tutto, tanti monologhi su argomenti molto frivoli, altre su cose impegnative ma non legate all’argomento, però secondo me nessuno dà voce a questi temi quindi cerco di concentrarmi su quelli.
Parliamo della tua esperienza con l’aborto farmacologico: conoscevi già la procedura? Credi che ci sia informazione fra le donne? Cosa non ti aspettavi?
No, secondo me le donne non sanno e io stessa sapevo molte cose solo in teoria. Io me ne sono accorta subito, ho chiamato il consultorio e l’esperienza in consultorio è stata positiva. Lì mi hanno consigliato l’aborto farmacologico perché essendo all’inizio era la cosa più ovvia. La cosa scioccante è iniziata quando mi hanno dato la lista degli ospedali e ho notato che in questa lista la maggior parte degli ospedali milanesi non offre la possibilità dell’aborto farmacologico, ti devi per forza operare. Io non capisco perché debbano obbligarti ad operare, è insensato. Già questa cosa mi ha lasciato così. Mi sono concentrata sugli ospedali che lo offrono e ho provato a telefonare e anche lì secondo shock: non potevo prendere l’appuntamento. Questa cosa è inspiegabile, è una manovra punitiva, non c’è una giustificazione logica. Il terzo shock è stato anche doversi presentare così presto la mattina. Io non avevo intenzione di perdere tempo e di dovermi sottoporre all’operazione, ma le visite sono una a settimana e prendono un numero limitato di donne e non si può prenotare. Non mi sono mai svegliata così presto.
L’aborto farmacologico prevede un ricovero di tre giorni, poiché bisogna prendere due pillole a distanza di due giorni. Quando ti hanno informato di ciò?
Me lo aveva detto il medico, persona ottima, e lui stesso mi ha detto che non avevano senso i tre giorni di ricovero, infatti mi aveva detto prendi la prima pillola, firma per uscire e torna a prendere la seconda pillola.
Una volta in ospedale hai trovato la stessa collaborazione?
Il problema è stato che tutto il resto del personale ospedaliero non era così collaborativo. Io ho avuto problemi quando mi hanno fatto storie perché firmavo per uscire e quando sono tornata mi hanno praticamente tenuto un giorno in più perché non trovavano nessuno che mi potesse dare una pillola e poi addirittura alla fine me l’hanno data nel tardo pomeriggio. Io volevo fare l’ecografia perché l’espulsione c’era stata ma non c’era un medico non obiettore presente, quindi nessuno mi ha fatto un’ecografia. Credo però che non c’entri nulla: se tu pensi che ho commesso un omicidio, l’ho fatto io, adesso tu controlla che io sto bene perché tu non hai influito su questa cosa. Sono dovuta rimanere un giorno in più e anche se non volevo sono rimasta perché ero in una situazione vulnerabile e mi hanno un po’ spaventato, dicendo che c’era il rischio di emorragia, come se dovessi morire.
Hai trovato giudicante il comportamento del personale ospedaliero?
Era assolutamente giudicante, sembrava lo facessero a posta a guardarti in un certo modo, è strano ed inquietante. Io ho viaggiato e pensavo che vivere a Milano significa essere avanti, invece no, ci sono delle persone che non sono avanti e sono quelle con cui ti interfacci. Non è questione di essere obiettori, io ho avuto problemi con le infermiere: non mi comunicavano nulla. Io ero in una stanza con altre sei donne e, tranne una, le altre avevano subito aborti spontanei, persone che volevano un figlio, lo avevano perso e questo per loro era sofferenza: perché farci stare insieme? Stiamo vivendo due esperienze opposte. Mi ha demoralizzato l’essere giudicata così tanto. Io sono abituata al giudizio a causa anche del lavoro che faccio ci sono abituata. Lì, però, io ero in una situazione vulnerabile, da sola in ospedale e non senza calore umano.
Ti sei sentita così giudicata anche dai tuoi amici e la tua famiglia?
No, anzi mi sono sentita accolta. Per fortuna i miei amici, quasi tutti nel mondo della comicità, sono persone che amano pensare, tendono ad avere mentalità aperta, i migliori complimenti sul monologo che ho fatto li ho ricevuti da loro. Il giudizio non l’ho sentito ma non ne ho parlato subito, l’ho tenuto un po’ per me perché non ne avevo voglia.
Cosa rispondi a chi dice che l’aborto non è un diritto?
Citerei George Carlin, il mio comico preferito, che disse “Com’è che tutte le persone che sono contro l’aborto sono persone che non scoperesti mai?” Se davvero credi che quella sia una vita umana, che può essere un punto di vista anche sensato, allora non dovresti iniziare a fare discorsi su “aborto sì ma solo in caso di stupro”: è una vita umana anche in quel caso. Nel momento in cui dici che non si può fare, tranne che in questi casi, allora stai dicendo veramente di voler regolare il corpo e la vita sessuale delle donne. Paradossalmente ho più rispetto per quello persone che vogliono proteggere l’embrione in ogni caso, quelli sono i più coerenti, ma forse sono anche dei pazzi furiosi.
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