La scelta di Morgana
intervista di Giulia Nanni e Zdenka Rocco
Incontriamo l’artista e scultrice Morgana Orsetta Ghini, che crea opere, installazioni, gioielli, ispirate al tema della femminilità. Questo concetto viene raffigurato attraverso l’uso raffinato e discreto delle forme della vulva, tratto caratteristico del suo intero lavoro.
Ci vuoi raccontare il perché di questa tua scelta? Qual è l’origine?
È stata una scelta apparentemente casuale, ed è successo tutto in Accademia di Belle Arti a Roma. Io abitavo fuori città e arrivavo un po’ tardi a lezione. L’unico posto in cui potermi sedere per disegnare era per terra, sotto il bancone della modella, la quale ogni venti minuti cambiava posizione, per cui non riuscivo mai a disegnare la figura intera. Alzavo gli occhi e la vedevo nuda, dal basso verso l’alto: quindi mi capitava sempre di essere di fronte alla sua vulva. Così mi sono detta: mi concentro solo su una parte del corpo che vedo bene e faccio quella. Per un anno ho fatto disegni così: sono partita dal tentare di disegnare la vulva in maniera iper-figurativa, riproducendone tutti i dettagli, per poi arrivare a una linea più astratta.
In Accademia questa tua ricerca è stata apprezzata?
Sono arrivata all’esame di fine anno con due rotoli di disegni, con l’ansia della valutazione perché non sono mai stata brava a disegnare. Avrò portato un centinaio di disegni ed ero attenta a capire se piacevano o meno, in senso tecnico. Invece ho iniziato a rendermi conto che la gente presente in aula sorrideva, i professori iniziavano ad ammiccare… Ho capito che non stavano valutando i miei disegni dal punto di vista tecnico didattico, ma si stavano domandando, divertiti, perché mai avessi raffigurato delle vulve: sembrava dovessero trovare un motivo, probabilmente un problema, dietro questa scelta. Hanno iniziato a dire “ma allora ti piacciono le donne”, “ma questa ha la fissa” … Quando ho iniziato a sentire questi riferimenti, mi sono detta: non è possibile, qui c’è un limite! Proprio in Accademia che immaginavo essere un luogo fuori dagli schemi. Da lì ho iniziato a convincermi che avrei continuato a interpretare artisticamente la vulva, nella sua dimensione più poetica e fertile, proprio per sfidare il pregiudizio che a mio avviso era, e spesso rimane, assolutamente fuori luogo. Dunque nei successivi anni di Accademia ho sviluppato questi temi, anzitutto approfondendo come il corpo della donna fosse stato usato nell’arte, nella pubblicità, nella politica e nelle lotte di emancipazione femminile.
Perché hai iniziato a realizzare le sculture?
Ho iniziato a fare sculture perché credo che la tridimensionalità dell’opera sia più affascinante. Trovo molto interessante come un blocco di qualunque materia coinvolga non solo la persona che lo lavora, ma coinvolga anche lo spazio e il luogo che lo contiene: ti devi organizzare per lavorarci intorno, osservarlo da ogni angolatura e definirne la creazione attraverso un costante contatto fisico, a volte anche brutale. Io ho bisogno di instaurare un rapporto con la materia.
All’inizio forse facevo delle sculture più provocatorie, perché anch’io avevo bisogno di capire quale fosse il pregiudizio che le persone manifestavano nell’incontrare sculture realizzate da una donna e narrando un tema cosi specificamente esplicito. E si instaurava il ciclo perverso delle classiche domande che mi facevano, alcune veramente imbarazzanti: “quindi è la tua?”, “quindi chissà quante ne hai viste?”, “dov’è il clitoride?”. Subito a sostenere stereotipi superficiali invece che affrontare un discorso più approfondito.
Com’è lavorare con gli uomini?
Sono abituata a lavorare in un mondo di uomini, la fonderia, il fabbro, la cava di marmo, e sono abituata a fare tutto io. Ho un rapporto con gli uomini molto paritario, ho capito come bisogna trattarli e, in alcuni casi, come bisogna trovare dei compromessi. Perché non è facile fare la scultrice. Arrivi in cava, ti guardano, “e adesso questa cosa vuole?”, pensano. Voglio un blocco di marmo! Devi diventare un po’ aggressiva e tante volte questa mia parte così aggressiva può dare fastidio, soprattutto alle donne.
Perché da parte delle donne che tipo di reazione hai avuto?
La loro reazione è cambiata negli anni. All’inizio, quando ero più giovane, molte vedevano la mia arte come un voler farsi vedere, un voler usare un tema solo per farmi conoscere. Invece, poi ci si è resi conto che dietro c’è un lavoro molto più profondo, un grande rispetto per la donna. E col tempo sono diventate delle mie grandi alleate. Me ne sono resa conto soprattutto quando ho iniziato a fare gioielli in cui è rappresentata una vagina, apprezzati da tante donne, che sono orgogliose di averla come simbolo, perché è come dare un valore diverso. Ho collezioniste da anni, che hanno delle mie opere e mi dicono che non se ne separano mai, un po’ come un amuleto, quando in qualche modo ti dà non dico forza, ma un senso di appartenenza. È bello! Me ne sono resa conto col tempo quando mi capita di incontrare delle persone che hanno un mio anello magari da dieci anni e mi dicono che non se lo tolgono mai.
Vedendo i tuoi lavori abbiano notato che alcuni sono stati commissionati da enti pubblici per luoghi pubblici. Com’è successo?
In effetti la cosa dei Comuni e delle opere pubbliche può sembrare surreale ma capita. Capita di incontrare persone intelligenti che si rendono conto di tutto il lavoro che c’è dietro. Per esempio, un paio di anni fa ho fatto un lavoro per il Palazzo Ducale di Massa, una mostra pubblica, “L’arte al femminile”. Per quella mostra ho fatto tre lavori decidendo di concentrarmi sul sociale. Ognuna delle tre sculture voleva trattare tre temi: la violenza, il bisogno dell’unione e l’infibulazione.
La prima “Mi difendo come posso”: una buccia di marmo naturale, quindi molto ruvida con incisa solo una grande vulva molto organica, sembra quasi una conchiglia e, dal marmo, escono degli spuntoni in ferro “Sempre vergine”, scultura in marmo bianco e filo di ferro appuntiti, proprio come una specie di foresta, delle armi, una corazza. La seconda è “Ritratto di famiglia”: tre vagine, come se fossero una madre con delle figlie o tre donne che hanno bisogno di unirsi, di stare insieme per farsi forza. L’ultima è un lavoro sull’infibulazione: il blocco di marmo, da una parte liscio, super morbido e molto sensuale, da far venire voglia di toccarlo; mentre dall’altra parte un filo di ferro arrugginito, come un ricamo nella carne che chiude la speranza di una nuova vita. Lei si chiamata “Sempre Vergine”. Un altro lavoro è quello realizzato per il Lago di Molveno, #OP17. Lì dentro c’è un concetto legato allo svuotamento del lago, alla scoperta della sua identità nascosta, un lavoro legato alla cautela che dovremmo dedicare all’uso delle risorse naturali, cosi come alla consapevolezza che tali risorse vanno comunque utilizzate per il bene della comunità. Dunque una visione diversa di come si possa sintetizzare la necessità di produrre dei frutti con l’attenzione che dobbiamo dedicare alle risorse che li producono; nel caso della scultura una visione del lago, risorsa naturale e contemporaneamente macchina di energia, come non era mai stata immaginata prima.
Hai incontrato degli ostacoli nel tuo lavoro?
Sì, e ho dovuto aggirare l’ostacolo per non rischiare di essere solo “quella che fa le vagine”. No, non sono quella che fa le vagine, è un’altra cosa! Tutte le opere che ho messo insieme negli anni mi permettono di presentarmi con una riflessione, e ci si rende conto che c’è una storia, ci sono dei concetti da sviluppare.
Ci parli di una delle ultime sculture in marmo?
Una fontana. Sono andata in cava, ho trovato un blocco bellissimo. Aveva già fatto quasi tutto la natura, dovevo giusto ammorbidirlo un po’. È stato un bel lavoro, sono molto contenta del risultato. Mi piace legare l’acqua, gli elementi naturali. L’acqua è vita, anche il movimento, il rumore, ti apre i sensi. Anche il tatto è fondamentale, me ne rendo conto quando vengono delle persone in studio da me, chiedono tutti guardando le mie sculture: “si può toccare?” Certo che sì! Tocchi il marmo, tocchi le forme e ti si apre l’immaginario anche dei tuoi ricordi. Vedi una buccia di marmo, pensi che sia ruvidissima, poi la tocchi e invece è super liscia. Bisogna passare un attimo un po’ più in là, come con le persone: se ti fermi un secondo, inizi a metterti in gioco e a voler conoscere. Il problema è che nessuno ne ha più voglia.
MOG – Morgana Orsetta Ghini
Nata a Roma nel 1978, frequenta l’Accademia di Belle Arti, che conclude a Carrara nel 2001, diplomandosi con lode. Grazie al progetto Erasmus trascorre un anno a Tenerife nelle Isole Canarie, dove apprende le tecniche di fusione del bronzo e la lavorazione del ferro.
Realizza le sue opere in materiali diversi, come il marmo, il ferro, il bronzo, le resine, l’acciaio, gli acquarelli e i tessuti. Dal 2004 inizia a disegnare e realizzare gioielli, che sono interpretati come piccole sculture.
MOG crea opere ed installazioni ispirate al tema della vagina, con significato anche a sfondo sociale.
Vive tra Pietrasanta e Berlino.
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