Intervista a Lucia Annibali
di Valeria D’Angelo e Laura Grifi
Durante il ricovero sei stata a lungo bendata: cosa ti aspettavi di vedere e come pensavi sarebbe stato l’incontro con il tuo corpo inevitabilmente cambiato?
Non so cosa mi aspettavo, era difficile anche solo immaginare. Sicuramente sognavo. Immaginavo una nuova me, ascoltavo spesso la musica e la musica mi suggeriva delle immagini. Ad esempio ricordo di aver sognato una festa, a casa di un amico, una bellissima casa in campagna. Ero lì con amiche e amici, e m’immaginavo con qualche segno, qualche riga sul viso, ma niente di che. Immaginavo un nuovo look per ripropormi e reinventarmi. Una persona ustionata capisce soltanto dopo, quando torna a casa, cosa è accaduto veramente. Quando sei in ospedale è tutto molto ovattato. Io, tra l’altro, non vedevo bene i primi tempi, quindi non avevo idea di come potessi essere. L’incontro con il mio viso è avvenuto in più fasi, anche a causa dei problemi alla vista. All’inizio non mi soffermavo più di tanto sulla mia immagine, anche perché mi dicevo che non sarei rimasta così per sempre. In realtà, è un ri-incontro che si rinnova ogni mattina, ogni mattina ti guardi e rinnovi la tua immagine e il tuo rapporto con te stessa.
Sono diventata molto amica di Paola Turci, che ha avuto una storia per qualche modo simile alla mia e ha appena partecipato al festival di Sanremo con una bellissima canzone, in cui racconta di questa accettazione di sé e di mettere in primo piano la tua opinione, prima ancora di quella degli altri. Ogni giorno vedi te stessa e devi rinnovare il bene che ti vuoi. È un incontro che avviene continuamente: ogni volta che conosci un’altra persona ti rendi conto che l’altra ti guarda, come se ci fosse una specie di filtro, non è mai un incontro diretto, è questo quello che noi viviamo. Quindi, in ogni occasione di incontro, bisogna di nuovo convincersi che vai bene così come sei.
In merito ai cambiamenti del tuo volto, cosa è stato più complesso affrontare: riconoscersi e ricostruire la propria identità corporea su nuovi lineamenti, o trovarsi nello sguardo degli altri?
Non puoi affrontare gli altri in modo equilibrato, anche con il giusto distacco che ti permetta di non farti ferire più di tanto, se prima non hai raggiunto un equilibrio con la tua nuova immagine. Un’immagine che devi accettare per forza; pur migliorandola il più possibile, comunque delle imperfezioni ci saranno sempre. Anche dei fastidi. Io convivo con dei fastidi oggettivi che sento solo io e non so quanto gli altri possano percepirli. Io li sento chiaramente. Quindi diventa una mediazione continua. È un impegno personale che si ripropone sempre, anche nel contesto lavorativo per esempio. Non è facile, perché senti addosso la fatica fisica e, nonostante questa fatica, devi andare avanti e affrontare la giornata.
Ad ogni modo, nel mio caso io ho contribuito attivamente alla ricostruzione fisica del mio corpo, ho progettato e scelto come ricostruirmi e sono diventata un tutt’uno con quella ricostruzione. Il fuori e il dentro vanno assolutamente all’unisono, anche perché se no sarebbe difficile vivere e riuscire a riproporsi nella società.
In che direzione ti hanno portato le operazioni chirurgiche: verso la te del passato o verso la nuova te?
Non abbiamo mai pensato di riprodurre il viso originario, l’abbiamo usato a volte come base per gli zigomi, per capire come erano posizionati. Sarebbe stata una cosa inutile e stupida. Non è possibile e non è progettabile riproporre un viso come quello di prima. L’importante è pensare e progettare un viso che sia prima di tutto funzionale: ho dovuto ricostruire tutte le palpebre e quindi la possibilità di aprire e chiudere gli occhi. Può sembrare una cosa scontata ma non lo è. Per diversi mesi le mie palpebre non si chiudevano correttamente, causandomi problemi alla vista. Ho dovuto ricostruire il mio volto per riuscire a mangiare in modo abbastanza corretto, dare una certa morbidezza alla pelle e al viso, ricostruire il naso per riuscire a respirare meglio. L’aspetto estetico è venuto di pari passo: più intervieni e più acquisti una tua fisionomia; l’importante per me è che sia più naturale possibile. Ci sono tante donne che si ricostruiscono, ma magari perdono questo aspetto naturale.
Attualmente cosa pensi e cosa provi rispetto al tuo corpo?
Questa ustione coinvolge tutto il corpo, perché per riparare il viso ho dovuto utilizzare altre parti del mio corpo, rovinandole. Il fisico viene molto sollecitato dagli interventi e in qualche modo sto cercando di recuperare anche una femminilità. Più che recuperarla, devo riuscire a portarla all’esterno. Non è che io non mi senta femminile, però forse devo farla uscire di più, anche alla vista degli altri. Aprirmi, piano piano, all’idea di essere scoperta. Avere un viso segnato ti rende più vulnerabile. Bisogna trovare persone che siano in grado di accoglierlo e di non farti sentire a disagio.
Il tuo volto è simbolo della lotta alla violenza sulle donne: da cosa e in che modo pensi debba essere liberato il corpo delle donne?
Dovrebbe essere liberato dai pregiudizi, dalle strumentalizzazioni, dalle offese e, in qualche modo, penso che anche le donne debbano proteggere il proprio corpo da questi utilizzi sbagliati. Le donne dovrebbero proporsi nella loro profondità, ragionare su quello che è il loro animo, il loro cervello. A me non piace se le donne si mettono in mostra da un punto di vista esclusivamente fisico. Liberarsi ed essere liberate, anche dai linguaggi. In questi giorni ci sono stati molti episodi. Anche gli uomini dovrebbero liberarsi da questo tipo di approccio, di mentalità e di linguaggio.
Nel racconto della tua storia, come hai percepito la comunicazione mediatica? Cosa non avresti voluto sentir dire e cosa non ti hanno mai chiesto?
Le domande sono sempre quelle e non sono neanche tanto interessanti a volte. Una cosa che ho notato è la difficoltà a proporre sé stessi, non solo come la vittima da un punto di vista processuale, ma come donna vincente. Vittima in senso processuale, ma non vittima nella vita. Ognuno si può ricostruire in modo vincente. Mi piacerebbe essere raccontata come una persona che si è emancipata e da molto tempo, per giunta. Non mi piace il bisogno dei media di essere attaccati all’aspetto morboso della cronaca, senza pensare che dietro la cronaca c’è una persona che vive e ha dei sentimenti e che ha fatto anche un suo percorso. Forse questo percorso sembra meno interessante a volte, ma in realtà io sono andata molto più avanti rispetto a come loro avrebbero voluto, a volte, raccontarmi. Soprattutto adesso, lavoro e ho una casa mia. Faccio un altro tipo di vita. Ormai non è più al passo con i miei tempi raccontarmi come la ragazza sfregiata e anche questo volerti etichettare come “la sfregiata” è veramente triste, riduttivo, un po’ offensivo, con nessuna sensibilità verso il percorso umano. Credo che quando appari in televisione devi avere una certa padronanza del significato di quello che ti è successo, della dignità che tu vuoi dare a ciò che ti è successo. In modo che anche gli altri facciano allo stesso modo. Ci vuole molta consapevolezza e molta cognizione di causa. Il mio percorso sui temi delle donne, parte dai fatti che mi sono accaduti, non me ne occupavo prima e cerco di trasmettere, oggi, la sincerità e l’autenticità del mio percorso.
Noi che lavoriamo nei Centri Antiviolenza mettiamo al centro la donna, la sua storia e ripartiamo da lei. Ci ha colpito che tu abbia scelto di mettere la tua immagine al servizio della lotta alla violenza contro le donne e di non voler dare più spazio all’autore della violenza da te vissuta. Per noi la tua scelta, oltre a confermare la tua elaborazione e determinazione, ha sottolineato l’importanza di dar voce alle donne nella loro pluralità, depersonalizzando l’uomo violento, simbolo di una società maschilista e patriarcale. Ti rivedi in questo?
Questo mio approccio è stato un punto di arrivo. Avevo metabolizzato il rapporto con lui, ma la sofferenza comunque c’era. Nel momento in cui mi sono dovuta far carico di quello che mi era successo (me ne sono dovuta fare carico io, di certo non lui) mi sono messa ed ero assolutamente al centro. Ho dovuto fare cose talmente grandi, che tutto il resto ha assunto un’importanza minore. Quello che sono stata chiamata e costretta a fare è qualcosa di gigantesco e disumano.
In secondo luogo, a me non piace raccontare molto i dettagli della mia storia, perché penso che non facciano una grande differenza, perché più o meno le storie sono quelle, le dinamiche sono quelle. È più interessante dare un messaggio costruttivo e positivo, più che andare in televisione a dire: “Mi ha fatto questo o quell’altro”. La mia scelta è stata quella di trasmettere qualcosa di diverso che possa valere per tutte. Mi hanno chiesto poco tempo fa cosa avrei voluto dire a lui, ma per me è come se parlassimo dell’anteguerra, ma basta! Anche se avessi delle cose da dire a lui, non le direi pubblicamente. A un certo punto, quello che ti è successo deve tornare a essere un fatto privato e personale e devi avere il tempo di viverti da sola ed elaborare quotidianamente una vita normale. Non c’è bisogno di passare tutta la vita come una vittima o come una sfregiata.
Sappiamo che spesso hai incontrato i ragazzi/e delle scuole, luogo dove anche noi pensiamo debba farsi più prevenzione e informazione sulla violenza di genere: cosa ti ha più sorpreso da questi incontri, positivamente e negativamente?
L’incontro con gli studenti è iniziato con la pubblicazione del libro. Sono stata anche nelle università e nelle carceri, a Rebibbia, Parma e Padova. Con i ragazzi è stato sempre abbastanza interessante, è un incontro che ti lascia sempre qualcosa di positivo. Gli studenti mi hanno scritto in diverse occasioni, anche per e-mail, condividendo le loro storie. Quasi sempre, c’è qualcuno che vive anche in famiglia dei rapporti difficili e questi incontri possono essere l’occasione affinché tirino fuori qualcosa di personale. Per esempio mi ricordo di una ragazza, qui a Roma, che ci ha lasciato un biglietto sul tavolo, con una sorta di poesia, di racconto da cui si intuiva che aveva delle sofferenze. Gli stimoli arrivano.
Attualmente collabori con il Ministero delle Pari Opportunità: cosa è prioritario affrontare nel contrastare la violenza contro le donne?
Ci vuole una continuità. La possibilità di pensare e programmare dei progetti che possano avere il tempo di essere realizzati. Servono soluzioni concrete ed efficaci, sia da un punto di vista legislativo, che sulla prevenzione dei maltrattamenti in famiglia. Possiamo individuare delle pratiche che siano già state messe alla prova e di cui abbiamo risultati concreti. La concretezza è fondamentale, anche da un punto di vista legislativo. Tra qualche giorno, ricominceremo con i gruppi di lavoro all’interno dell’Osservatorio sulla violenza di genere e ripartiamo alla grande. Ci saranno tre gruppi: uno sul percorso sanitario su cui vorremmo delineare delle linee guida in collaborazione con associazioni e centri antiviolenza; il secondo gruppo si occuperà del piano straordinario contro la violenza, che deve essere riscritto e preparato; il terzo è più tecnico, perché si occuperà dell’Intesa Stato-Regioni. Ci apprestiamo a realizzare tutto quello che avevamo messo in cantiere nei mesi precedenti. Siamo desiderosi di continuare.
scarica qui .pdf del numero di marzo 2017
Questo sito non costituisce testata giornalistica, non ha carattere periodico ed è aggiornato a seconda della disponibilità del materiale. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7/3/2001.