Il calcio è (anche) donna
di Antonio Paesano
“Il calcio è maschio”. Questo messaggio l’ho letto in diretta in una radio che si occupa di calcio, e forse ho sbagliato, devo ancora capirlo. Scrivo queste righe mentre la Nazionale di Bertolini sta pareggiando 1-1 contro l’Australia, nazionale più esperta e allenata. Più forte.
Iniziamo da qui. Perché sono più forti le calciatrici australiane? Genetica? Tradizione? Per caso il calcio è sport nazionale da quelle parti? No, siamo fuori strada. Le atlete della nazionale australiana sono calciatrici professioniste, giocano a calcio per lavoro e non per diletto. “Eh, come le nostre”, diremmo in prima battuta. No. Cioè sì, ma no. In Italia una donna che gioca a calcio non può formalmente essere riconosciuta come professionista. Pausa, rileggete l’ultima frase. Un’altra volta. Senza entrare in un vortice di termini provenienti dalla politica sportiva, limitiamoci a constatare il fatto che una ragazza che vuole iniziare a giocare a calcio, sa già che per vivere dovrà fare un altro lavoro. Sì, un altro. Perché giocare a calcio a certi livelli è e deve essere un lavoro, considerato come tale in ogni aspetto, da quello umano a quello economico. Sul perché di questa scelta ci torniamo dopo. Ora concentriamoci sulle conseguenze. Un professionista, nel mondo dello sport, generalmente può ottenere: salario adeguato e proporzionato al contesto economico di quello sport in quel paese in quel momento storico; assicurazione medica; strutture di alto livello attraverso le quali migliorarsi e prevenire infortuni più o meno gravi; campi in erba ben curati adatti agli scarpini da calcio; equipaggiamento adeguato; staff tecnici importanti per la crescita e la cura dell’atleta. Tutto ciò riguarda (al massimo) marginalmente il mondo del calcio femminile in Italia. Ci si allena in strutture di basso livello, gli staff tecnici sono ridotti all’osso, i salari sono decisamente bassi. Dunque, una ragazza di 25 anni che gioca a calcio in Italia ha uno stipendio minimo e quindi, spesso, almeno un altro lavoro, può infortunarsi più facilmente rispetto a un professionista e, soprattutto, è probabilmente molto meno forte e allenata di una qualunque calciatrice di pari età australiana.
Ma non è neanche questo il punto principale. Una comprensibile obiezione potrebbe essere: “Ok, è tutto vero, ma il calcio femminile non piace a tutti, alcuni lo percepiscono come noioso e viene poco visto, quindi non ci sono soldi da investire in questa realtà”. Può anche essere vero, non va discussa l’opinione ma forse quello che c’è alla base. Se il calcio femminile risulta meno interessante rispetto ad altri contesti, posso legittimamente pensare che sia perché le nostre ragazze non hanno le stesse possibilità di altre ragazze sparse per il globo? Perché la nazionale femminile statunitense ha giocatrici idolatrate in tutto il paese e noi no? Perché sono professioniste e come tali vengono trattate, dai club, dai media e dai tifosi. Lì i soldi vengono investiti e poi incassati, non il contrario. Non prendiamoci in giro: lo sport è diventato un business di alto livello, dai guadagni sempre più importanti per chi sa investire e nessuno deve scandalizzarsi di fronte al bisogno di rendere spettacolare un evento al fine di renderlo sempre più appetibile. È un prodotto, va venduto. Può piacerci o no, ma è così. Il prodotto “calcio femminile” va venduto come tutti gli altri prodotti sul mercato. Non lo vendi se non investi nel suo sviluppo. Quindi, non ci guadagni. È talmente banale che mi sento idiota a scriverlo, ma evidentemente di idioti non ce ne sono moltissimi.
Prima di perderci in una retorica di cui nessuno ha bisogno, parliamo di dati. Parliamo dei Mondiali, quelli di 4 anni fa in Canada e quelli di oggi in Francia. Cito da un bel pezzo che vi consiglio, pubblicato su Ultimo Uomo a firma Roberta Decarli: il comune di Nizza, ad esempio, una delle città nelle quali si giocheranno le partite del Mondiale, ha investito un milione di dollari e si aspetta un ritorno economico superiore ai 40 milioni; i premi per le squadre nel Mondiale canadese ammontavano a circa 15 milioni, quest’anno a 30; in generale, in questo mondiale sono state investite il 233% di risorse in più rispetto al Mondiale di 4 anni fa.
Dunque, si muove. Eccome se si muove. Investimenti e guadagni, business sportivo. Non si gridi allo scandalo, proviamo a stare alla larga dalla retorica dello sport tra polvere e fango, cuore e sudore. Con la retorica non si comprano attrezzi sicuri per le atlete, non si convertono campi sintetici in campi d’erba, non si pagano come dovrebbero essere pagate le atlete. Uno sport seguito è uno sport ricco, uno sport ricco è uno sport in salute, uno sport in salute ha più possibilità di tutelare chi quello sport lo pratica. Banale. Eppure.
E qualcosa si muove anche in Italia. Restando al Mondiale: Sky e Rai trasmettono in diretta le partite, comprese ovviamente quelle della nostra Nazionale, al termine di un’annata che ha segnato un anno zero dal punto di vista della copertura mediatica (e non solo) del calcio femminile, soprattutto grazie al network di Murdoch. Sky ha trasmesso la Serie A femminile, facendo incuriosire e appassionare molti scettici. La Juventus ha portato all’Allianz circa 40.000 persone per una partita di calcio femminile. Bene, bravi, ma soprattutto bis: poco, troppo poco l’unicum della Juventus, la crescita sulla scia delle bianconere è più che necessaria. Crescere, migliorare, divertirsi, giocare, vincere, perdere, sbagliare. Sono verbi che possono riferirsi all’ambito sportivo, no? A me sembrano tanto dei diritti. Molto umani.
PS: nel pezzo non trovate paragoni tra calcio femminile e calcio maschile. Questo perché il sessismo applicato al calcio non aggiunge nulla alla narrazione sociale, politica e soprattutto culturale degli anni che viviamo in Italia. Prima ancora di chiedere pari opportunità tra maschi e femmine nello stesso paese, forse è il caso di chiedere prima pari opportunità tra atlete di nazionalità diversa. In altri paesi, come negli Stati Uniti, il tono del dibattito è particolarmente acceso, ma loro sono arrivati prima di noi alla preistoria. Il calcio è maschio? No, ve piacerebbe.
PPS: L’Italia di coach Bertolini ha vinto contro l’Australia. Daje!
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Antonio Paesano, romano, 30 anni, lavora per la AS Roma e si occupa di radio e tv. Non sa giocare a calcio.
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