Iconografia del gioco amoroso
Intervista a Chiara Cretella, di Giulia Nanni
“Grechine”, come nel 2009 definì il ruolo delle donne nei media Zanardo: identità ridotte a mero corpo. Un corpo di cui non sono padrone, utilizzato per compiacere gli uomini. Oggi nulla è cambiato: la rappresentazione delle donne è per la gran parte stereotipata, umiliante e reificante. Ma quanto lontano affondano tali radici? Qual è l’iconografia della violenza sulle donne?
«L’iconografia della violenza sulle donne segue parametri precisi fin dall’antichità, un rimodellamento che non ne ha cambiato l’essenza: viene fatto passare per gioco amoroso quella che in realtà è pura violenza. Sono tantissime le iconografie a questo riguardo. Nel mio libro Effetto Medusa (Lupetti Editore, 2014) ho cercato di farne una rassegna e di riannodare questi fili tracciando una contro-storia della violenza di genere dall’antica Grecia alla pubblicità mainstreaming. Il modello di amore fusionale è presente in tutti i miti e in tutte le letterature sin dall’antichità; ancora oggi la maggior parte delle canzoni e delle poesie si basa su questi cliché tragico-romantici. Allo stesso modo si ripropone l’archetipo del delitto d’onore: Paolo e Francesca, uccisi in flagranza di adulterio, “Amor condusse noi ad una morte”, o il geloso Otello che strangola Desdemona per semplice illazione, fino al dramma del romanzo borghese ottocentesco. L’archeologia di un’immagine culturale va analizzata nel profondo, per comprendere dove affondi il suo humus. L’estetizzazione della violenza, foriera di morte, è anche un’ambigua spinta propulsiva verso la pulsione di vita, mediante la sua erotizzazione. È questo meccanismo che ne permette la sopravvivenza culturale. Se il modello proposto è ancora quello dell’amore fusionale, non ci si può aspettare che vi sia un lieto fine. La narrazione mediatica delle tragedie post-amorose si adegua a questi parametri, piuttosto che volgere allo scardinamento dell’equazione amore/sofferenza. Interrompere infatti questa catena significherebbe qualcosa di più della giustizia di cronaca: implicherebbe cambiare un modello culturale che dai primi dell’Ottocento invade l’immaginario occidentale».
Anche il mito d’Europa racconta come Zeus prese le sembianze di un toro bianco, le si avvicinò e la portò sull’isola di Creta, rivelò la sua identità e tentò di stuprarla. Europa resistette, ma egli si trasformò in aquila e riuscì a sopraffarla. L’Europa prende il nome dal mito di uno stupro?
«A partire dal maggio 2013 è avvenuta l’introduzione delle nuove banconote dell’Euro, che sono state sottoposte a restyling grafico da parte della Comunità Europea: il nuovo tema elaborato per queste banconote, che sarà dunque anche il simbolo della confederazione, è il soggetto mitico del ratto d’Europa. È molto indicativo il fatto che, alla ricerca di una comune radice identitaria dell’Europa – riprodotta su una moneta, ancora una volta il corpo femminile come merce di scambio – si pensi ad uno stupro come simbolo fondante di questa unione».
Assegnista di Ricerca di sociologia con un progetto in gender studies, fa parte del Csge-Centro studi sul genere e l’educazione del Dipartimento di Scienze dell’Educazione-Università di Bologna. È autrice di numerosi saggi cui alterna una vasta attività giornalistica. Collabora con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, per cui ha ideato e curato sei edizioni del Festival La violenza illustrata.
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