16 Giorni di Attivismo Contro la Violenza di Genere – 2014
Il Women’s Global Leadership Institute (WGLI), nel 1991, ha dato vita alla campagna internazionale “16 Days of Activism Against Gender Violence” per favorire la costruzione di una maggiore consapevolezza rispetto al fenomeno della violenza di genere. La scelta fu quella di collegare simbolicamente il 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) e il 10 dicembre (giornata internazionale dei diritti umani).
Quest’anno, il tema della campagna è stato: “Dalla pace in casa alla pace nel mondo: sfidiamo il militarismo e la fine della violenza contro le donne”. L’Associazione Rising – Pari in Genere ha aderito evidenziando i diritti negati alle donne, in Italia.
Di seguito, i testi completi:
#Day 1 – ABORTO, DIRITTO NEGATO
L’obiezione di coscienza ha avuto negli anni un profondo mutamento: i numeri ufficiali riportano un aumento costante del fenomeno, ma quelli reali sono ancora più allarmanti.
Nel nostro Paese i ginecologi obiettori di coscienza che quindi non garantiscono l’interruzione volontaria di gravidanza prevista dalla legge 194, sono sempre di più. In media in tutta Italia la percentuale di medici obiettori non scende mai sotto il 50%, tranne la virtuosa Valle d’Aosta in cui gli obiettori sono il 16,7%. Ma sono le regioni del Sud e del centro quelle con la più alta densità di obiettori: in Sicilia, Campania, Calabria, Lazio, Molise e Basilicata le percentuali di medici obiettori superano l’80%.
Numeri sempre più allarmanti che portano l’Italia a violare i diritti delle donne che “alle condizioni prescritte dalla Legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza”, ha dichiarato il Comitato europeo dei diritti sociali, rispondendo al ricorso presentato nel 2012 dalla Cgil insieme ad altre associazioni.
#Day2 – PARI RETRIBUZIONE, DIRITTO NEGATO
L’art. 37 della Costituzione italiana cita quanto segue: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. […]”.
Nella pratica invece, la differenza generale di retribuzione è di circa il 27%; il nostro Paese si colloca così tra quelli con il maggior divario retributivo tra uomini e donne: secondo la classifica pubblicata lo scorso 28 ottobre 2014, annualmente stilata dal World economic forum (Wef), l’Italia è infatti al 129esimo posto per disuguaglianza di reddito.
Il divario retributivo uomo/donna mostra quanto viene considerato il lavoro femminile, rilevando discriminazioni di genere e separazioni nel mondo del lavoro: una differenza media compresa fra il 17 e il 22% significa che le lavoratrici ricevono una paga oraria inferiore rispetto ai corrispondenti lavoratori maschi.
Il divario retributivo è sia causa che conseguenza della disparità fra gli uomini e le donne.
#Day3 – PARITÀ NEL PROCESSO DECISIONALE, DIRITTO NEGATO
Il “Global Gender Gap report”, del World economic forum (Wef), afferma che avere un maggior numero di donne che partecipano al processo decisionale significa anche prendere decisioni che tengano conto delle esigenze di un segmento più ampio della società e ottenere quindi dei risultati che interessano un maggior numero di persone.
Per quel che riguarda la partecipazione politica delle donne, l’Italia si colloca al 37esimo posto sui 142 paesi considerati.
Le donne continuano quindi ad essere sottorappresentate nei processi e nelle posizioni decisionali, in particolare ai livelli più alti, nonostante costituiscano il 52% della popolazione totale ed investano nell’istruzione molto più degli uomini.
Tra le ragioni della sottorappresentazione delle donne, nei ruoli senior, troviamo:
- ruoli e stereotipi tradizionali;
- carenza di un sostegno per donne e uomini al fine di raggiungere un equilibrio tra le responsabilità familiari ed il lavoro;
- mancanza di trasparenza nella pratiche di selezione e promozione del personale.
Una rappresentazione di genere equilibrata nella governance politica è invece una delle pietre angolari di una democrazia responsabile e una condizione chiave per la parità di genere nella società in senso stretto.
#Day4 – RICONOSCIMENTO DELLE PROPRIE COMPETENZE, DIRITTO NEGATO
Ogni volta che una donna, in Italia, si “distingue” per i propri meriti professionali, viene bombardata da una serie di commenti e insulti sessisti, volti a sminuirne la persona.
Succede alle donne in politica, che non vengono ricordate per le proprie idee ed azioni, ma sempre e soltanto per il proprio aspetto fisico. Succede ad atlete, intellettuali, attrici, professioniste di ogni settore. Quando si parla di donne diventa sempre fondamentale l’aspetto fisico, si fa sempre riferimento ad eventuali raccomandazioni, che le avrebbero portate dove sono. Viene discussa la vita sessuale della donna, la sua desiderabilità e vengono sciorinati i soliti commenti sessisti, volti a “riportare all’ordine” la donna.
L’ultimo caso eclatante è quello dell’astronauta Samantha Cristoforetti. Prima donna italiana negli equipaggi dell’Agenzia spaziale europea, prima donna italiana nello spazio, tra le prime sei su 8500 candidati del suo corso, parla fluentemente 5 lingue, determinata e focalizzata sul suo obiettivo. Hanno fatto scalpore molti commenti fatti dall’utente medio di internet, alla sua impresa. I soliti giudizi sull’aspetto fisico: chi la considera mascolina, chi troppo poco attraente. E poi il solito stereotipo legato alla presunta incapacità delle donne di guidare (le statistiche dicono che le donne pagano meno l’assicurazione della macchina perchè fanno meno incidenti…), per cui si prevede che alla prima manovrà la Cristoforetti ammaccherà la navicella, sbattendo facendo manovra. O l’immancabile battuta sessista sul bisogno che qualcuno tenga pulito e cucini, anche nello spazio. Ecco il motivo di una presenza femminile nella missione. Sembra innocua ironia, eppure attraverso questi commenti viene perpetrata una cultura misogina, volta a non riconoscere le competenze femminili e a riproporre una profonda disparità fra i generi.
#Day5 – ESSERE RAPPRESENTATE DIGNITOSAMENTE, DIRITTO NEGATO
Quante volte ci è successo di vedere corpi di donne nude o semi-vestite per vendere macchine, yogurt, telefoni, gioielli, profumi e tanto altro?
Quante volte la notizia è un seno o una vagina sbucate fuori, per caso, per sbaglio in qualche acrobazia ginnica, trasmissione in diretta o spettacolo di qualsiasi tipo?
Quante volte la donna è utilizzata come cornice, muta, di un uomo?
Il corpo femminile è ovunque (giornali, tv, pubblicità, politica) strumentalizzato, nella sua nudità, per attirare l’attenzione; la donna è mercificata per vendere ogni cosa, dalle informazioni agli oggetti.
Lorella Zanardo, in un documentario dedicato al corpo femminile, parla di «volti ridotti a maschere dalla chirurgia estetica, corpi gonfiati a dismisura come fenomeni da baraccone di un circo perenne che ci rimandano un’idea di donna contraffatta e irreale»; ci dice che «i volti e i corpi delle donne reali sono stati occultati, al loro posto la proposizione ossessiva, volgare, manipolata di bocche, cosce, seni…» e si chiede, «dove sono finite le qualità del femminile nelle immagini che oggi dominano?».
La donna proposta sembra esistere solo per assecondare i desideri maschili; ridotta ad oggetto sessuale.
Sempre la Zanardo evidenzia: «è stato stabilito che le donne debbano porsi come oggetto di desiderio, sempre e comunque in ogni situazione, anche quando sono interpellate per la loro professionalità».
E sbagliamo tutte quando crediamo che queste immagini non ci riguardano, perché sono sotto gli occhi di tutti e tutte, continuamente, alimentano le fantasie, ci condizionano ed invadono il mondo.
Apparire sembra più importante che essere e, probabilmente, senza tutta questa continua pressione dover essere belle, secondo dei canoni che non sono state le donne a scegliere, queste, si accetterebbero molto di più per quello che sono.
#Day6 – ESSERE RICONOSCIUTE PARTE LESA DI REATI SESSUALI, DIRITTO NEGATO
«Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti in uno dei suoi film più famosi. E lo sono davvero, soprattutto quelle scritte sui giornali o dette in televisione. Perché fanno cultura, puntano l’attenzione su un aspetto di una questione rispetto ad un altro, creano locuzioni o modi di dire che diventano di accezione comune. Più o meno nello stesso periodo due notizie analoghe hanno attirato l’attenzione dei media, ma sono state trattate in modi completamente diversi dalla stampa. Quello delle minorenni che si prostituivano a Roma e quello di Gabriele Paolini, accusato di pedofilia e di induzione alla prostituzione. I “casi” erano molto simili: minori indotti alla prostituzione. Eppure le vittime sono state trattate diversamente. Già dai titoli si notano differenze sostanziali: nel caso delle ragazze, la maggior parte dei giornali e delle televisioni parlarono di “baby squillo”; nel caso dei ragazzi, di “pedofilia”. Quindi, quando si trattava delle ragazze si è puntata l’attenzione su di loro, quando si trattava dei ragazzi sul “cliente”, definito pedofilo. Parlando di “baby squillo” l’attenzione è sempre stata rivolta alle ragazze, non ritenute vittime, ma in qualche modo carnefici: servizi su ragazzine che in cambio di ricariche telefoniche offrivano favori sessuali, sulle loro madri, sul tenore di vita che tenevano, sul fatto che “attiravano” i “clienti”, a volte mentendo sulla loro età. Quindi un panorama di “ambigua moralità” delle stesse ragazzine, troppo giovani sì, ma in fondo consapevoli di quello che facevano. La stessa cosa non può dirsi parlando di Gabriele Paolini: qui non sappiamo nulla dei ragazzi coinvolti. Non si sa se le famiglie erano a conoscenza della cosa, il tenore di vita dei ragazzi o la loro “moralità”. Al contrario delle ragazze, qui l’attenzione è stata rivolta giustamente al “cliente”, definito questa volta presunto “pedofilo” e si è indagato sulla moralità di quest’ultimo, sottolineando che era in possesso di materiale pedopornografico. Quindi le ragazze in qualche modo se la sono cercata, i ragazzi sono vittime di un presunto pedofilo. Questo è solo un esempio per sottolineare quanto troppo spesso le vittime, quando sono donne, vengono private del loro diritto di venir riconosciute come parte lesa.
#Day7 – CONCILIARE MATERNITÀ E LAVORO, DIRITTO NEGATO
L’Italia, insieme solo alla Spagna, risulta tra i paesi europei con la più bassa fecondità: ridotto il numero dei figli (figlio unico), posticipata considerevolmente la maternità, o addirittura, evitata del tutto.
Se però non è il desiderio di maternità ad essere diminuito, ma piuttosto la realizzazione dello stesso, dobbiamo probabilmente chiederci in che modo l’esperienza della maternità s’intreccia con il piano produttivo della vita? Su quali garanzie e tutele possono contare le lavoratrici di ultima generazione che decidono di avere un figlio?
Tra le principali motivazioni a non avere un numero maggiore di figli troviamo la difficoltà di conciliare i tempi produttivi e riproduttivi.
Lo stesso ISTAT afferma che, per molte donne, il diritto di scegliere lavoro e famiglia è solo teorico.
I dati infatti ci dicono che: il 18,4% delle madri lasciano o perdono il lavoro dopo la nascita dei figli, di cui il 5,6% è stata licenziata in seguito alla cessazione dell’attività lavorativa che svolgeva e il 12,4% si è licenziata per via degli orari inconciliabili con i nuovi impegni familiari. Il 40,2% delle madri che invece proseguono il lavoro dichiarano di avere delle difficoltà nel conciliare la vita lavorativa con quella familiare.
Inoltre il 40% delle donne che non lavorano dichiarano che è per occuparsi dei figli.
I maggiori problemi alla conciliazione, risultano essere:
- la rigidità dell’orario di lavoro e lo svolgere turni;
- la non concessione del part-time;
- lavorare la sera o nel fine settimana.
E’ esteso il ricorso all’utilizzo dei servizi, ma, sono le donne stesse a confermarlo, ce ne sono pochi, non coprono tutte le richieste e il costo è davvero elevato.
Del resto, l’asimmetria che ha da sempre caratterizzato la divisione del lavoro di cura e l’esistenza di un modello welfaristico tradizionale basato sull’immagine di una moglie-madre chiamata ad assolvere innanzitutto il compito “naturale” di assistenza e di cura sono dati certi. E’ quindi sempre stata la donna a dover scegliere, in prima persona, tra il piano produttivo e riproduttivo o a chiedere forme di conciliazione tra famiglia e lavoro.
Il pluriuniverso dei contratti atipici poi, non ha aiutato: la stretta relazione tra la propria situazione lavorativa e la difficoltà a compiere scelte di lungo periodo che riguardano la propria vita affettiva e riproduttiva è al centro di ogni narrazione sul lavoro nel mondo del precariato.
Anche se illegale, infine, non possiamo non considerare l’ancora presente pratica delle dimissioni in bianco firmate su pretesa del datore di lavoro al momento dell’assunzione della donna e compilate dallo stesso al momento dall’appresa gravidanza della sua dipendente.
Un vero e proprio attentato alla libertà riproduttiva delle donne.
#Day8 – NON ESSERE CANCELLATE DALLA STORIA, DIRITTO NEGATO
“Le donne hanno governato e profetizzato, hanno coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i loro diritti e per i diritti dei loro popoli. Sono state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’erano sempre, eppure le cronache ufficiali hanno rimpiazzato la loro storia con un elenco interminabile di uomini nel quale fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana.” (Maria G. Di Rienzo).
E’ passato il falso concetto che la storia sia cosa da uomini, esattamente come la matematica e la scienza e, per lungo tempo, anche la letteratura. Le donne sono sempre rappresentate sullo sfondo di questo quadro storico, intente ad occuparsi delle “cose di casa” e a crescere i figli. Il doppio lavoro delle donne, impegnate si, uniche e sole a crescere ed educare la prole, ma anche a studiare, inventare, scoprire e combattere, è sempre stato taciuto. Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, il vincitore maschio ha raccontato la sua storia, in cui è l’unico protagonista e alla femmina è concesso solo di stare sullo sfondo, comprimaria silenziosa, al massimo ispiratrice di grandi gesta, compagna da cui tornare, vincitore o vinto. Eppure le donne hanno costruito città, hanno combattuto guerre, teorizzato e scritto, inventato e scoperto. Ma si parla solo dei rispettivi maschili, mai di loro. E’ arrivato il momento di reclamare il nostro spazio nella storia, di recuperare il ruolo che abbiamo avuto e abbiamo nel cambiare il mondo. Perchè chi non ha un passato è destinato a non avere un futuro, chi non conosce la propria storia non può cambiarla, così come chi non conosce i propri diritti, non ne ha. I libri di testo escludono le donne dalle proprie pagine e il rischio di non conoscere la propria storia consiste nel sottovalutarla e nel perdere diritti così difficilmente ottenuti.
Riappropriamoci del nostro passato, della nostra storia e delle nostre eroine e sarà più facile capire e cambiare il nostro presente.
#Day9 - PRENDERSI SUL SERIO, DIRITTO NEGATO
E’ molto sottile ma sempre forte il tema ideologico secondo il quale se una donna si prende sul serio, rischia di perdere la propria femminilità, di trasformarsi in un uomo. Come se il pretendere di più in ogni ambito ci “snaturi”. E sì, perchè sembra che faccia parte della natura femminile l’accontentarsi, il fare un passo indietro, l’accettare le cose per quello che sono. Come se appartenesse solo alla natura maschile il desiderio di migliorarsi, di abbattere i muri, di superare se stessi e i limiti sociali e culturali.
Quindi quando le donne pretendono di avere acccesso agli stessi lavori degli uomini, agli stessi salari e agli stessi diritti, vengono accusate di “mascolinizzarsi”, di perdere quelle caratteristiche riconosciute proprie del sesso femminile, come l’arrendevolezza e la concilianza.
Simone de Beauvoir nel “Il secondo sesso” scrive: “Il privilegio che l’uomo detiene e che si fa sentire fin dall’infanzia sta in questo, che la sua vocazione di essere umano non contrasta con il suo destino di maschio. […] Egli non ha contrasti. Mentre la donna, per compiere la sua femminilità, è costretta a farsi oggetto e preda, e cioè a rinunciare alle sue rivendicazioni di soggetto sovrano.”
Come donne rivendichiamo il diritto di poterci realizzare in tutto il nostro potenziale di esseri umani, senza essere accusate di mascolinizzarci. Siamo molto fiere della nostra femminilità e portiamo avanti con grande forza le milioni di sfaccettature diverse contenute nella parola “femminile”, reclamando a gran voce il nostro diritto a prenderci sul serio.
#Day10 – PROTEZIONE PER LE DONNE TRAFFICATE E SFRUTTATE SESSUALMENTE, DIRITTO NEGATO
Con la fine dell’operazione “mare nostrum” sono ripresi i respingimenti in mare collettivi della popolazione migrante in arrivo in Italia. Respingere direttamente in mare significa privare di diritti umani fondamentali. Nel 2014 il numero di donne sbarcate in Italia è cresciuto vertiginosamente: 16.839, contro le 7.658 del 2013; tra queste, le giovani donne nigeriane sono aumentate del 300% (1.290, contro le 392 del 2013). Come sappiamo, la maggior parte di loro provengono dallo stato nigeriano di Edo e già durante il “viaggio” si ritrovano in una condizione di schiavitù: vengono violentate e costrette a prostituirsi in Libia e poi inviate in Italia dai loro sfruttatori.
Con i respingimenti in mare anche queste donne sono private dei più elementari diritti di difesa e di informazione e poste nell’impossibilità di formalizzare una richiesta di asilo, di adesione ad un programma di protezione e di fare valere qualsiasi altra causa ostativa al respingimento immediato.
Inoltre, il sistema di protezione e reinserimento socio-lavorativo stesso, previsto dall’art. 18 del T.U. in materia di immigrazione, rischia di morire a causa della pressoché totale mancanza di fondi: vani, finora, appelli e raccolte firme organizzate dalle associazioni che, da anni, tengono in piedi il sistema di protezione.
Negare il pieno godimento di diritti e la protezione alle vittime della tratta significa negare loro una vita libera e dignitosa e costringerle a rimanere schiave.
#Day11 – INTEGRITA’ PSICOFISICA, DIRITTO NEGATO
Mentre la Risoluzione Honeyball, approvata dal Parlamento europeo lo scorso febbraio, sancisce che la prostituzione è una forma di violenza di genere e deve dunque essere affrontata colpendo chi la agisce e la alimenta (in primis il “cliente”), in Italia si ripropone l’istituzione di zone dedicate alla prostituzione, le così dette ZONE ROSSE, con proposte politiche e normative che ci fanno tornare indietro di almeno sessant’anni e che, se attuate, azzererebbero le conquiste di civiltà ottenute con la Legge Merlin e la chiusura delle “case chiuse”.
Individuare luoghi e modalità con cui la prostituzione sia legalizzata significa rendere normale l’acquisto dei corpi delle donne, significa assumersi la responsabilità di un messaggio culturale per cui l’essere “clienti” è normale; significa non tenere in minima considerazione il diritto all’integrità psicofisica che ci spetta di diritto, a tutte e tutti, indistintamente; significa non considerare che l’invasione reiterata del proprio corpo, da parte di estranei, comporta implicazioni fisiche, psichiche e sessuali.
Rivendichiamo con forza il diritto all’integrità psicofisica per ogni donna e la diffusione di una cultura di genere, paritaria e rispettosa delle differenze, che non ci releghi ad oggetti sessuali e non alimenti, in alcun modo, la subordinazione tra i generi.
#Day12 – LIBERTA’ SESSUALE, DIRITTO NEGATO
Perché per molte donne parlare di sesso è ancora scabroso? Perché molte, ancora non riescono a dire la parola orgasmo? Perché molte vedono la masturbazione come qualcosa di solo maschile e molte altre provano ancora vergogna ad ammettere di praticarla?
Perché quindi, per molte donne la sessualità è un tabù?
Probabilmente perché la vita sessuale non è soltanto un’attività cosciente; essa ha anche una dimensione inconscia e siamo tutti, uomini e donne, condizionati profondamente, oltre che dai desideri, dai nostri vissuti personali, di appartenenza di genere e dal contesto culturale in cui siamo inserite/i.
Le donne hanno infatti conquistato con grande ritardo il diritto ad una sessualità intesa come godimento. J. Lacan diceva «ciò a cui il godimento conduce non ha nulla a che fare con la copulazione nella sua finalità di riproduzione» eppure, non era così facile: come potevano aver voglia di fare sesso esseri umani che, ad ogni relazione sessuale, rischiavano una gravidanza? Soltanto quando si sono emancipate dall’obbligo riproduttivo le donne hanno iniziato a non considerare più il rapporto sessuale come un obbligo, un azzardo, una fatica, una catena che le legava al loro destino.
Le cose sono cambiate, il sesso oggi te lo tirano dietro a casse, eppure per molte donne una sessualità libera e serena è lontana anni luce dal loro vissuto quotidiano. Dalla vita reale.
Ed è difficile perché certi stereotipi sono duri a morire. Tante, troppe volte, sentiamo dire che “per le donne il sesso è meno importante che per gli uomini”; che “gli uomini hanno i loro istinti, le loro necessità fisiologiche, mentre per le donne è diverso”.
Per un uomo avere rapporti sessuali con molte donne è un vanto, per una donna comporta etichette di vario genere. Quante di noi hanno sentito fare, od hanno fatto per prime, la differenza tra la “santa” e la “puttana”? Luoghi comuni e riflessioni di cui più o meno siamo tutte/i consapevoli razionalmente, ma quante donne, davvero, riescono ad uscirne indenni? Quante non ne sono condizionate?
Fin quando la sessualità femminile non sarà cosa propria, di ogni singola donna in quanto tale ma, al contrario, continuamente sottoposta al giudizio dell’intera società, le donne non vedranno riconosciuta la loro libertà sessuale.
#Day13 – ACCOMPAGNARE I PROPRI FIGLI NELLA LORO CRESCITA, DIRITTO NEGATO
Due donne a settimana vengono uccise per mano di un uomo, due donne a settimana non hanno più voce. Così come termina la notizia sulle pagine di un quotidiano, lentamente sembra assopirsi il ricordo di ognuna di loro. Ma la morte di una donna per mano di un uomo, in 8 casi su 10, marito e padre dei propri figli, non ha mai una conclusione, non termina mai con un punto.
Cosa accade a chi rimane? Cosa prova un bambino che ha perso la madre in modo violento per mano del suo stesso padre? Con chi crescerà?
Gli orfani del femminicidio subiscono un trauma profondo che segnerà le loro esistenze: una costellazione dei perché sia avvenuto tutto questo occuperà le proprie giornate, fatte di mattine che non inizieranno più nella propria camera da letto, di ore trascorse a scuola che non potranno più essere condivise e raccontate alla propria mamma, di paure che non verranno contenute come era abitudine, di una buona notte che non avrà più un suono familiare.
I bambini, così come gli orfani adulti, sono costretti ad affrontare vissuti che annientano, perdite incolmabili e, talvolta, uno stigma di cui si vergogneranno.
Le nuove famiglie nelle quali cresceranno, spesso quelle in cui nonni che vivono il medesimo lutto si reinventano genitori, sono chiamate a ricoprire un ruolo di supporto, a costituire un ambiente dove i bambini e i ragazzi possano crescere nonostante quello che hanno subito.
É una strada in salita, un percorso labirintico e ricco di ostacoli che si sarebbe potuto evitare se solo quell’uomo, quel padre, avesse rispettato la propria compagna e avesse accudito e tutelato il proprio figlio, così come un partner e un genitore dovrebbero quotidianamente fare.
#Day14 – TRASMETTERE IL PROPRIO COGNOME AI FIGLI, DIRITTO NEGATO
Il cognome non è stato sempre adottato nella storia dell’uomo: è durante il Medioevo che in Europa si è iniziato ad usarlo, tra le famiglie nobili e ricche, per garantire la trasmissione del patrimonio di famiglia da padre in figlio. Era un diritto riservato agli uomini, in quanto le donne non avevano capacità giuridica, non potevano possedere beni e quindi trasmettere o ricevere diritti successori.
Malgrado i lenti cambiamenti sociali, che hanno portato le donne ad avere maggiori diritti, anche a livello successorio, la trasmissione del cognome solo per via paterna è rimasta una tradizione radicata nella collettività per secoli, e si è pensato di metterla in discussione solo verso la fine del ‘900.
Il mutato assetto sociale e giuridico sui diritti di successione ha portato ad una modifica costituzionale, con la riforma del diritto di famiglia (1975) che garantisce “uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (ex art. 29 Cost.). Da quel momento la famiglia perde il suo modello patriarcale e gerarchico che ha il suo apice nel “capo famiglia”, per puntare su una comunità di eguali che garantisce “pari dignità sociale” (ex art. 3) ed “uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (ex art. 29 comma 2).
Eppure il diritto della madre di trasmettere il proprio cognome ai figli ancora non è stato riconosciuto dalla legge italiana, anche se in molti paese del resto d’Europa è già prevista, secondo principi di effettiva uguaglianza del padre e della madre.
La Cassazione riconosce discriminatorio non consentire l’attribuzione del cognome materno e afferma che “una diversa sensibilità nella collettività e i diversi valori di riferimento, connessi alle profonde trasformazioni sociali intervenute, […] richiedono una rinnovata valutazione della conformità” delle norme del Codice Civile.
Sempre la Cassazione dice che l’attribuzione del cognome dovrebbe garantire un duplice diritto: della madre di trasmettere il proprio nome, ma anche del figlio “di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori e di testimoniare la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna”.
Continuare con la sola trasmissione del cognome per via paterna è dunque un perpetrare una concezione patriarcale della famiglia ormai superata e antica, non conforme ad una società e ad una visione di famiglia moderna, in cui la madre, tanto quanto il padre se non di più, è colonna portante della famiglia, portatrice di eredità culturali e materiali, ma anche simboliche, come può essere un cognome.
Una proposta di legge sulla possibilità di trasmissibilità del cognome anche da parte della madre, è stata presentata e approvata alla Camera. Rimaniamo in attesa che si pronunci il Senato, per sapere se dopo molte battaglie, si stia finalmente arrivando, anche in Italia, alla conquista di questo diritto.
#Day15 – MIGRARE DIGNITOSAMENTE, DIRITTO NEGATO
In Italia l’immigrazione femminile rappresenta circa il 50% del totale eppure, anche in questo caso, le donne subiscono enormi differenze di trattamento rispetto ai colleghi uomini. Come se non bastasse l’alto livello di esposizione agli abusi fisici e sessuali da parte dei padroni nei luoghi di lavoro, degli uomini che le accompagnano e dalle autorità di polizia; queste donne soffrono anche la maggior esposizione ad una vera e propria segregazione occupazionale: sembra esservi “un destino lavorativo”, rappresentato dal lavoro domestico nelle sue diverse forme, compreso il lavoro di cura, o in alternativa la prostituzione.
Il settore del lavoro di cura occupato dalle badanti si caratterizza per le particolari condizioni di sfruttamento lavorativo: minacce di denuncia alla polizia, sequestro dei documenti, violenze fisiche e sessuali, assenza di riposo settimanale e giornaliero, retribuzioni molto al di sotto dei parametri contrattuali, superlavoro e isolamento.
Le più “fortunate” hanno un permesso di soggiorno, le altre, clandestine, vedono aggravarsi notevolmente quanto appena elencato.
Un altro mito da sfatare è quello delle competenze; le donne straniere non svolgono lavori più umili perché meno istruite: i dati ci dicono infatti, che le donne straniere presentano livelli di istruzione molto simili a quelli della popolazione femminile italiana.
La burocrazia italiana inoltre, rende la vita di queste donne estremamente complicata: il rinnovo del permesso di soggiorno, oltre che costoso, prevede dei tempi lunghissimi; per avviare una procedura di ricongiungimento familiare si è costrette a perdere giornate di lavoro; l’accesso ai servizi è limitato a causa della scarsa conoscenza della lingua e del territorio.
Oltre a vivere il trauma legato alla lontananza dalle persone care, da casa, dalla propria cultura e da tutto ciò che le è familiare, molto spesso sono donne sole nel territorio italiano, non hanno familiari a cui far riferimento e in caso di presenza dei figli conciliare l’essere madre con il lavoro diviene ancora più difficile.
Anche gli assegni familiari sono negati a queste famiglie, pur avendo il comune permesso di soggiorno, occorre infatti il permesso di soggiorno CE (soggiornanti di lungo periodo) per accedere a diritti come questo.
Alla luce di quanto accennato appare evidente che se le donne di per se in Italia vedono negarsi innumerevoli diritti, nel caso delle donne straniere il quadro si aggrava ulteriormente.
#Day16 – LIBERE DI VIVERE LIBERE, DIRITTO NEGATO
Violenza fisica, sessuale, psicologica, economica, stalking, tratta degli esseri umani, sfruttamento della prostituzione, matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili, acidificazioni. Molestie per strada e nei luoghi di lavoro. Femminicidi.
Nell’arco della vita, una donna su tre ha subito violenza da parte di un uomo.
Nel 2014, una ogni due giorni è stata uccisa da un uomo.
La violenza ci nega il diritto a vivere libere. E’ una grave violazione dei diritti umani.
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