Marwa che studia la vita
intervista a cura di Barny Muheddin Hagi Bascir
Marwa è una ragazza siro-palestinese di 19 anni e ha vissuto, nonostante la sua giovane età, le atrocità della guerra. La prima cosa che ti colpisce di lei è il suo sguardo vivo, speranzoso, e la voglia di raccontarsi per dare voce e fisionomia alle tante persone che come lei chiamiamo distrattamente migranti. Ci incontriamo nella sede di Laboratorio53 e inizia la nostra intervista.
Qual è il tuo paese d’origine?
Sono nata a Damasco in Siria, dove ho vissuto fino all’età di 14 anni. I miei genitori hanno origini palestinesi.
Quali sono le ragioni per cui hai deciso di lasciare la Siria?
Siamo dovuti scappare a causa della guerra iniziata nel 2011; tra il 2014 e il 2015 sono arrivati nel nostro quartiere gli uomini dell’ISIS e la zona dove abitavamo è stata bombardata. Mio fratello è stato ferito gravemente, la nostra casa distrutta e non abbiamo potuto prendere neanche i documenti. In famiglia siamo sette, i miei genitori, io, due fratelli e una sorella, non sapevamo cosa fare, mio fratello è stato ricoverato all’ospedale e noi abbiamo trovato rifugio da una zia. Siamo rimasti lì due mesi ed è stato molto difficile. In questo periodo mio padre ha conosciuto l’uomo che ci ha portato fuori dalla Siria.
Qual era la vostra meta?
L’Europa; volevamo andare in Svezia, ma i soldi che ci avevano chiesto erano troppi e così siamo dovuti andare prima in Giordania per poi arrivare in Italia. Siamo partiti di notte da Damasco su un autobus ed è stato molto difficile, siamo rimasti nascosti per ore insieme a molti altri senza poter uscire, fino all’arrivo in Giordania. Siamo rimasti lì un anno e sei mesi, vivevamo in una stanza e mio padre lavorava in nero. Messi da parte i soldi, abbiamo ricontattato l’uomo che ci aveva fatto arrivare in Giordania e siamo ripartiti senza documenti per l’Italia.
Come siete stati accolti?
Le guardie sono state molto dure, non credevano fossimo siriani e continuavano a dirci che eravamo egiziani. Hanno diviso gli uomini dalle donne e ci hanno perquisito, bambini compresi, anche nelle zone più intime. Dopo aver preso le impronte digitali ci hanno lasciato dormire nella sala d’aspetto per due notti dandoci solo lo stretto necessario. Alla fine, ci hanno detto di prendere il treno per Roma per raggiungere un centro d’accoglienza e siamo partiti da soli. Arrivati alla stazione Termini, abbiamo però contattato il solito uomo dicendogli che volevamo arrivare in Svezia e siamo ripartiti. Arrivare in Svezia è stato facile, eravamo molto meno agitati di quando siamo partiti per l’Italia.
Come è stato l’arrivo in Svezia?
Siamo usciti dall’aeroporto senza nessun controllo e siamo andati dalla polizia per dire che eravamo arrivati. Ci hanno accolto bene e hanno fatto tutto il possibile per darci quello di cui avevamo bisogno. Dopo avergli raccontato la nostra storia ci hanno detto che avrebbero informato l’Italia, visto che era stato il primo paese d’arrivo in Europa e avrebbero chiesto se dovessimo tornare indietro o no. Poi ci hanno portato in un centro a Malmo, bello ed accogliente: lì c’erano molti arabi e ci siamo sentiti come a casa. Siamo rimasti lì due mesi, poi siamo stati trasferiti in campagna, quindi in una casa dove era più facile per mio fratello raggiungere l’ospedale e curarsi. Alla fine, è arrivata la risposta dall’Italia e siamo dovuti tornare.
Come hai vissuto il rientro in Italia?
Siamo tornati l’8 settembre 2017, ricordo bene la data, è stato difficile. L’accoglienza è stata peggiore della prima volta, siamo rimasti un giorno in aeroporto e poi ci hanno trasferito in un grande centro a Castelnuovo di Porto. Quando mia madre ha visto che la maggioranza degli ospiti erano maschi africani è svenuta ed è stata ricoverata. Il centro era sporco, c’erano topi e le stanze non avevano porte. Non è stato facile vivere là, soprattutto per me che sono una ragazza, gli uomini mi guardavano spesso e una volta un africano mi ha fatto un brutto segno perché voleva adescarmi. Mi sono molto arrabbiata, ho riferito questo agli operatori che ci hanno spostato in una stanza dove la nostra famiglia poteva stare più tranquilla. Dopo un paio di settimane ci hanno trasferiti in un centro di accoglienza a Fiumicino.
Come è stata questa nuova esperienza?
Abbastanza buona: ho imparato la lingua conseguendo il livello A2 e ho cominciato ad aprirmi al mondo anche grazie all’aiuto di una psicologa che mi ha proposto di frequentare le iniziative della sua associazione, Laboratorio53. Conoscere nuove realtà è stato molto importante. Ho scoperto un nuovo mondo e visto le differenze tra il vostro modo di vivere e il nostro che seguiamo l’Islam. Ho dovuto trovare un equilibrio tra quello che diceva la mia famiglia e la vita di oggi: per esempio non potevo uscire da sola e, quando sono stata selezionata per un’esperienza di volontariato, mio padre ha accettato di mandarmi solo se accompagnata da mio fratello. Per fortuna questa cosa è cambiata e ora frequento i corsi da sola: frequento classi miste, sono contenta, mi sento più libera.
Come è la tua vita oggi?
Siamo stati riconosciuti come rifugiati e ora viviamo a Ostia, in una casa che non ci è stata assegnata come promesso, ma che riusciamo a pagare grazie al lavoro di mia madre e dei miei fratelli. Mio padre non ha ancora trovato un lavoro. Non è facile vivere in un paese straniero: oltre le difficoltà linguistiche, le persone hanno delle idee su di te. Per esempio, io e mia madre portavamo il velo e le persone ci guardavano in modo strano comportandosi diversamente con noi, questo non ci piaceva e così abbiamo deciso di toglierlo. Sto frequentando due scuole, una per prendere la terza media e l’altra per imparare meglio l’italiano. A volte mi sento stanca perché oltre la scuola devo aiutare i miei. Li aiuto in casa e svolgo dei compiti da vera capofamiglia, visto che sono quella che parla meglio l’italiano. Sono felice di poterli aiutare e poi credo che tutta questa esperienza mi sarà utile nel futuro.
Come vedi il tuo futuro?
È difficile vederlo. Questa vita è nuova e la sto studiando. Farò sicuramente il liceo, vorrei fare la hostess, viaggiare e conoscere il mondo. Mi piacerebbe fare volontariato in Palestina e Siria. Sono contenta come donna di avere qui forse più possibilità, di poter decidere della mia vita e di fare esperienze nuove e ringrazio Dio per aver incontrato molte persone buone, non faccio caso alle persone che pensano male di noi. Voglio impegnarmi per avere un buon futuro.
Scarica qui il .pdf del numero di marzo 2019
Questo sito non costituisce testata giornalistica, non ha carattere periodico ed è aggiornato a seconda della disponibilità del materiale. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7/3/2001.