“Il linguaggio, la mia arma fondamentale”
di Zdenka Rocco
Incontriamo Selvije, donna albanese in Italia fin dal 2000. Arrivata in gommone per migliorare la sua vita, dopo alcuni anni di grandi difficoltà e tante sofferenze, oggi si definisce una donna felice. E ha fatto della parola, del linguaggio lo strumento fondamentale del suo lavoro. Infatti Selvije è una mediatrice culturale.
Vuoi raccontarci la tua storia? Da quanto tempo vivi in Italia e come ci sei arrivata?
Vengo dall’Albania, da un bellissimo paese che si chiama Mirdita, che in italiano significa “buongiorno”. Mi imbarcai su un gommone un bel giorno di dicembre, era il 2000. Volevo migliorare la mia vita. All’inizio soffrii tantissimo, senza documenti come tanti migranti. Ma come io dico sempre, dopo la tempesta spunta il sole: dopo diversi anni mi sposo con un uomo Italiano e divento mamma di un splendido bambino. Ho lavorato nei centri antiviolenza per dare voce alle donne e nei centri di accoglienza per i diritti dei migranti.
Qual è e in cosa consiste il tuo lavoro?
Il mio lavoro è la mediatrice culturale, interprete della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. La mediatrice culturale non è soltanto un’interprete che traduce da una lingua all’altra, ma esercita una vera e propria funzione di orientamento culturale nei confronti dei migranti. È una figura ancora poco conosciuta, che opera per favorire l’inserimento sociale dei migranti. E dialoga con gli enti territoriali, con i servizi sociali e con le istituzioni.
Ci aiuti a capire la differenza tra “fare una traduzione” e essere mediatrice culturale? Quanto è importante saper riconoscere e restituire le sfumature tra le parole?
Tradurre è prendere un testo, capirlo per ricomporlo in un’altra lingua. La traduzione nasce da un’esigenza pratica, dal bisogno di comunicare con chi utilizza un codice linguistico diverso dal nostro. La mediatrice culturale fa da ponte fra due culture, fra due utenti, per facilitare la comunicazione. Non si tratta soltanto di tradurre e interpretare, ma ci sono molti altri aspetti in gioco. I nostri interventi riguardano per lo più migranti in condizioni socio economiche disagiate e richiedenti protezioni internazionale. Dal punto di vista dell’intervento sociale, il compito è di facilitare, con il linguaggio verbale e non verbale, l’inserimento dei cittadini stranieri nel contesto sociale, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le risposte offerte dai servizi pubblici. Comunque fra mediare e tradurre c’è sempre di mezzo la parola, l’ascolto, la comunicazione, il sostengo. Il linguaggio è l’arma fondamentale.
Perché hai scelto di fare la mediatrice culturale?
Da bambina sognavo di fare l’interprete o la giornalista. Mi piaceva tanto leggere e scrivere. Finita la scuola superiore, per motivi economici e culturali, non ho potuto fare l’università in Albania. Sono arrivata in Italia con due parole, buongiorno e grazie, che mi aveva insegnato mio padre. Dopo alcuni anni, anche in seguito alle difficoltà che ho incontrato in Italia, sentii nascere dentro di me un richiamo e si accese una lampadina: volevo fare la mediatrice culturale. Penso che ci sia sempre bisogno di una mediatrice culturale: a scuola, all’ospedale, al consultorio, al Comune, in questura.
C’è un episodio del tuo lavoro che vuoi raccontarci?
Sì, quella volta che lavorai come interprete della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. La richiedente era una donna, aveva 45 anni e un figlio di 24. In Italia da 22 anni, per 22 anni per strada. Dal 2013 senza documenti. Fino a quando viene fermata e portata al CIE dove chiede la protezione internazionale. La donna era molto confusa, piangeva, non riusciva quasi a parlare. Ricordo l’emozione che aumentava, parola dopo parola. La gestione delle emozioni è una delle difficoltà maggiori nel mio lavoro. A un certo punto non ho fatto più da interprete o traduttrice, ho fatto la mediatrice. Ho creato il ponte, portando alla commissione la voce della donna. Conosco bene la cultura, gli usi e costumi albanesi: una donna non può tornare nel paese di origine dopo 22 anni trascorsi per strada. Ha perso l’onore e rischia la vita. La rassicurai: qui nessuno ti giudica e hai il diritto di vivere come tutti gli altri. Alla fine mi sentivo una donna soddisfatta.
Ci sono differenze tra la lingua italiana e quella albanese, specialmente rispetto a un uso sessista, discriminatorio, della stessa?
Sì, c’è discriminazione, nel linguaggio come nella società. Soprattutto nel mondo del lavoro, dell’economia e della politica, dove il genere femminile continua ad avere un ruolo marginale e non ricopre i ruoli di leadership. Manca l’obbiettivo principale di cancellare gli stereotipi legati alla discriminazione di genere per aggiungere valore alla partecipazione collettiva, sensibilizzare la gente sul tema dell’uguaglianza, fornire gli strumenti per far sì che tutti, uomini e donne, abbiano gli stessi doveri e gli stessi diritti.
Un augurio alle donne che oggi possono trovarsi in difficoltà?
A te donna! Con la tua dignità, trovi la forza e il coraggio di spezzare le catene di schiavitù con un mezzo semplice: il linguaggio. Auguro a tutte le donne di vivere libere e felici. Oggi io sono una donna felice.
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