Il potere delle parole
di Inma Mora Sánchez
Quello di cui non si parla non esiste, e le donne sono state escluse dalle parole per secoli. Negli ultimi anni, sono stati introdotti diversi termini per spiegare situazioni che, fino a poco tempo fa, erano ancora invisibili. Il maschile “neutro” non è neutro e questo ormai lo sappiamo bene: è il risultato di un mondo creato al maschile, in cui gli uomini sono la norma e le donne sono l’eccezione.
Nel nostro sistema patriarcale gli uomini sono al centro dell’organizzazione sociale e la loro visione del mondo, della storia e della cultura è considerata la visione universale e neutra. Il femminismo vuole trasformare questa realtà e, per farlo, è imprescindibile cambiare anche il modo di raccontarla. Abbiamo bisogno delle parole giuste per cercare di avvicinarci al significato vero e proprio di quello che vogliamo dire e per creare così un’immagine precisa di ciò di cui stiamo parlando. Perché ancora sembra strano dire avvocata, architetta o sindaca? Perché non è mai stato un problema dire infermiera, maestra o casalinga? Perché se la “a” viene prima della “o” nell’alfabeto, sul dizionario troviamo prima “bambino” e non “bambina”? Perché ancora il cognome paterno è quello che deve sopravvivere?
L’ordine maschile organizza il mondo e quello femminile resta sempre nascosto, strano, diverso. Ma non solo nella grammatica e nella lingua. Tutti i linguaggi della nostra cultura parlano al maschile e, dal femminismo, nuovi termini e tecniche cercano di misurare questa disparità di genere in ogni area sociale. Ad esempio, sappiamo che i grandi film della storia del cinema sono stati creati per uomini e parlano di uomini agli uomini. I personaggi femminili non hanno una vita propria, ma vengono costruiti in base al loro rapporto con gli uomini: sono mamme, mogli, fidanzate, amanti. Ma come misurare questa disparità? È sufficiente ricorrere al test di Bechdel per capire che più della metà dei film che vediamo non superano questa prova. Questo test è molto semplice e per superarlo basta che vi siano almeno due personaggi donne con nome, che parlino almeno una volta tra di loro e che l’argomento di questa conversazione non sia un uomo.
Parole come femminicidio o genere, che ormai sono entrate a far parte del linguaggio comune, sono state create per misurare le relazioni di potere fra uomini e donne e analizzare la violenza contro le donne come un fenomeno sociale preciso. I termini diffusi negli ultimi anni, la maggior parte in inglese, si sono moltiplicati per evidenziare tutto ciò che sembra invisibili agli occhi di tutte le persone cresciute in un sistema patriarcale senza mai metterlo in discussione. Tre esempi molto chiari: manspreading, manterrupting e mansplaining. Questi termini indicano diverse forme di violenza e pratiche di dominazione difficilmente riconoscibili perché si tratta di atteggiamenti quotidiani che sembrano non comportare una violenza evidente.
Da una parte, il mansplaining è semplicemente il modo paternalistico in cui alcuni uomini spiegano le cose a noi donne perché noi siamo donne e loro uomini. Anche quando noi siamo esperte su qualche argomento, sono convinti che la loro opinione è più importante. Questo termine è stato popolarizzato da Rebecca Solnit nel libro “Men Explain Things to Me” e lo potremmo definire come il piacere nel dare spiegazioni arroganti alle donne con la certezza di avere ragione per il fatto di essere uomini. Collegato a questo termine troviamo anche il manterrupting, ovvero il fatto che gli uomini interrompano le donne in continuazione e senza necessità, semplicemente perché credono che quello che loro devono dire sia più importante.
Se il mansplaining e il manterrupting sono un modo di comunicare e parlare, il manspreading, è invece un modo di stare nello spazio pubblico senza neanche essere capaci di pensare che vi sono altre persone (donne) che hanno bisogno anche loro del proprio spazio. Questo termine indica l’abitudine degli uomini di sedersi con le gambe così aperte da occupare anche il posto delle loro vicine. Il manspreading non è un problema di cattiva educazione: così come a noi donne hanno sempre detto che dobbiamo chiudere le gambe, agli uomini è stata sempre trasmessa l’idea di prenderci lo spazio. Qualche mese fa, il gruppo Mujeres en Lucha ha iniziato una campagna a Madrid chiedendo al comune misure contro il manspreading nei mezzi pubblici. L’appello è stato firmato da oltre 13000 persone e la Empresa Municipal de Transporte (EMT) ha deciso di iniziare una campagna contro questa pratica. È un esempio chiaro di quanto una parola possa essere utile anche per cambiare una piccola parte di questa complessa realtà -oppure almeno, di essere consapevoli su un fatto in particolare-.
Questo è lo spazio che noi dobbiamo prenderci: dalla “a” di avvocata al concetto di “femminicidio”, dalle nostre storie nei film al diritto ad occupare lo spazio pubblico. La violenza simbolica, quasi nascosta, è dove la violenza fisica e psicologica nascono e crescono. Finché le donne non avranno la parola, lo spazio e la visibilità, la violenza contro le donne continuerà ad esistere.
Inma Mora Sánchez, giornalista esperta in Gender Studies, ha lavorato in Italia, Spagna e Uruguay sui temi della violenza di genere. Insieme a Chiara Cretella, ha scritto il libro “Lessico Familiare. Per un dizionario ragionato della violenza contro le donne”. Oggi lavora come copywriter e si occupa della comunicazione online di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.
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